Esiste un mito molto diffuso secondo
il quale “lavorare di più ogni giorno aiuta a forgiare un futuro
professionale migliore”. Si tratta, appunto, di un mito perché,
anche se di certo avere lunghe giornate lavorative può aiutare a
migliorare i propri introiti, con il tempo ciò serve solo a
sviluppare fatica professionale e a rendere meno sul lavoro.
Alla
domanda “chi sei?” la maggior parte delle persone risponde
mettendo, al primo posto, la propria professione.
La
maggior parte del nostro tempo lo passiamo lavorando: per molti
lavoratori non c’è tempo per fare altro. Non facciamo più un
lavoro, noi siamo un lavoro. Prendiamo parte alla vita solo con il
nostro lavoro, e tutto quello che facciamo è collegato al nostro
lavoro.
Pavese,
con la sua raccolta di poesie “Lavorare stanca”, era stato
piuttosto profetico. Da un recente studio pubblicato sull’American
Journal of Epidemiology dai ricercatori dell’Institute of
Occupational Health di Helsinki emerge chiaramente che
trascorrere molte ore a lavoro produce effetti negativi sulle
performance cognitive delle persone di mezza età.
Questa
scoperta avviene anche quando le persone si rendono conto che, a
causa del loro livello di esigenza, si sono persi momenti che non
potranno mai più recuperare e ai quali, razionalmente, non avrebbero
mai rinunciato.
Si
svegliano un giorno e, appena aperti gli occhi, vengono invasi da una
profonda tristezza, un dolore che, in fondo, i soldi o l’importanza
sociale non guariscono facilmente.
Senza
rendercene conto, diventiamo un pezzo dentro il meccanismo della
produzione e stiamo scambiando la nostra salute e la nostra felicità
per i soldi. Soldi che pensiamo di usare quando ormai non saremo più
abbastanza giovani per farlo.
Lavorare
per vivere non significa solo lavorare il minimo per garantirsi una
vita dignitosa, ma anche saper vedere nel proprio lavoro un’occasione
per costruire la propria vita.
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